Nota: Trattandosi di un articolo composto da “appunti di viaggio”, la pubblicazione completa del testo procederà in maniera progressiva, con un nuovo appuntamento ogni martedì, seguendo i ritmi del “viaggio” di chi scrive.
Obiettivi dell’articolo, più qualche nota sul metodo
In questo articolo commenterò An Invitation from a Crab, raccolta di storie realizzata da panpanya e pubblicata in Italia da Star Comics a fine 2020. La raccolta è stata la prima uscita della testata panpanya Works. Nonostante la collana sia ormai arrivata alla settima pubblicazione,1 però, è facile notare come le opere di panpanya non sembrino aver riscosso un grande successo tra il pubblico italiano. Se prendiamo come indicatore di popolarità la pubblicazione di articoli su siti di settore, video approfondimenti o post social, per esempio, si nota come le pubblicazioni italiane di panpanya siano raramente affrontate, anche solo per fare rapide recensioni o commenti. Da un certo punto di vista, posso capire come la produzione di panpanya possa apparire eccentrica, avvicinandosi poco a diverse fette di pubblico; da tutt’altra prospettiva, però, trovo assai strano che queste opere non abbiano ricevuto un’attenzione maggiore all’interno di ambiti più “professionali”. Negli anni, infatti, ho avuto tantissime occasioni di parlare in modo entusiastico di panpanya con Matteo e con Lorenzo Di Giuseppe; ciò che ha sempre sorpreso tutti e tre è come nelle storie di panpanya, dietro un’apparente leggerezza stilistica e narrativa, si nascondesse una grande solidità tematica e artistica. Quelle che, a un primo sguardo, sembravano solo delle storielle bizzarre, in realtà nascondevano riflessioni profonde – seppur concretissime – sulle abitudini, sulle nostre percezioni, sul legame che abbiamo con la quotidianità e con la memoria. Si noti che questi stessi temi, seppur affrontati in modo diverso, hanno suscitato un certo interesse “critico” negli anni, in relazione ad autori orientali molto apprezzati come Taniguchi Jirō, Matsumoto Taiyō, Adachi Mitsuru e – in una qualche misura – anche in mangaka molto popolari come Urasawa Naoki. Come è, allora, che questi stessi temi non sono stati ritrovati anche nella produzione di panpanya?
Dal momento che in questi anni ho apprezzato così tanto le raccolte di panpanya, mi sembrava ingiusto non tentare – quantomeno – a legittimarle, provando a far emergere questioni e tematiche sotterranee che possono interessare a potenziali lettori. In generale, quando si apprezzano delle opere, si dovrebbe provare a far notare quanto possano essere interessanti. Ecco, quindi, il motivo principale dietro questo scritto. Al contrario di altri articoli, però, ho optato per un approccio diverso. Le opere di panpanya sono raccolte di storie di lunghezza medio-breve nelle quali – nonostante esista uno sfondo stilistico ed espressivo comune – troviamo notevoli variazioni sui temi e sulle situazioni rappresentate. Oltre a questo, avevo il timore che un’analisi eccessivamente astratta allontanasse troppo chi legge dalle singole storie. Provare a fornire un’analisi complessiva della raccolta, quindi, mi sembrava abbastanza inadeguato. Ho preferito, piuttosto, fare un commento delle singole storie, anche qua adottando un metodo un po’ diverso da quello che possiamo trovare in altri articoli di Terre Illustrate o di Keiko – Rivista. Nel titolo parlo, infatti, del commento come una serie di appunti di viaggio, termine decisamente strano per parlare di un’analisi artistica. Mi permetto di prendermi un po’ di spazio per spiegare cosa ho in mente. Se non avete, però, interesse verso questioni più astratte legate allo stile e ai modi di fare critica artistica, potete tranquillamente passare alla sezione Panoramica Generale.
Sullo stile dell’articolo. Gli appunti di viaggio sono un prodotto scritto che compiliamo durante un percorso. Cosa scriviamo in questi appunti? Le cose più disparate. Magari, camminando per una città, l’atmosfera di una strada ci colpisce particolarmente e vogliamo provare a catturarla a parole. Magari vogliamo ricordarci di un evento bizzarro che avviene proprio davanti ai nostri occhi, violando ogni nostra aspettativa. O, ancora, magari stiamo cercando un ristorante a cui siamo interessanti e abbiamo bisogno di appuntarci le indicazioni per raggiungerlo. Anche da questi brevi esempi, emergono due aspetti fondamentali che caratterizzano gli appunti di viaggio. Il primo è la loro frammentarietà: quando scriviamo degli appunti di viaggio, non è richiesto alcun tipo di sistematicità o di unità strutturale. Seppur sia vero che una volta tornati a casa possiamo voler ordinare i nostri appunti, rendendoli più uniformi e integrandoli con ricordi e conoscenze a posteriori, inizialmente non esiste una vera e propria progettazione dietro la loro scrittura. Se sapessimo già cosa scrivere ancor prima di partire, forse non avrebbe troppo senso tenere degli appunti di viaggio.2 Il secondo aspetto che emerge è il legame tra gli appunti di viaggio e la soggettività di chi li compila. Come dicevo, realizzare degli appunti di viaggio può avere una funzione mnemonica (ricordarsi cosa succede), espressiva (descrivere le sensazioni che proviamo) o anche orientativa. Tutte funzioni che sono realizzate in relazione a chi compila gli appunti. La stessa strada che può essere pregna di senso – e meritevole di essere riportata su carta – per qualcuno, può essere arida e poco interessante per altri. Oppure, perché dovrei appuntarmi il percorso per raggiungere quel ristorante a cui sono interessato, se so già come arrivarci o preferisco usare il GPS dello smartphone? Gli appunti di viaggio sono, in qualche misura, molto simili a dei diari e per questo andrebbero letti come appunti di qualcuno. Questo commento a panpanya può essere inteso come degli “appunti di viaggio” proprio perché nasce dalla parziale sistematizzazione di un insieme di note, osservazioni e commenti che ho fatto durante la lettura delle storie che compongono An Invitation from a Crab. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, se durante la lettura lo stile cambiasse di netto da una storia all’altra, diventando più impressionistico e meno argomentativo. Inoltre, è possibile che alcune emozioni e risonanze di cui andrò a parlare potrebbero non apparire immediate o particolarmente salienti per chi legge. Da un certo punto di vista, non nego che questo sia una sorta di vezzo meta-letterario. Come sarà evidente a chi ha già letto alcune delle opere di panpanya, le varie raccolte si pongono sempre come una sorta di diario personale in cui le esperienze quotidiane, le abitudini, i ricordi, i sogni e le fantasie di chi disegna vanno a convergere. Ho ritenuto quindi divertente privilegiare un approccio alla scrittura che si ponesse in continuità stilistica con la raccolta, in modo da legare opera e commento in un unico insieme. Ma questo è davvero fare critica d’arte? Un’obiezione che qualcuno potrebbe fare all’intero articolo è che essere frammentari e aggiungere elementi soggettivi all’interno della propria analisi sia un pessimo modo di fare critica. Effettivamente, un’idea molto diffusa è che soggettività e critica siano due aspetti che non dovrebbero entrare in contatto. Al contrario, il lavoro di un buon critico passa anche dal saper “purificare” il più possibile le sue analisi da aspetti soggettivi; questa idea è generalmente legata al fatto che emozioni, pregiudizi e aspettative personali siano fattori eccessivamente variabili per essere considerati una base solida per fare critica d’arte. Analogamente al caso della strada descritto poco fa, una stessa opera può provocarmi emozioni fortissime almeno quanto può lasciare indifferente la persona al mio fianco. Ciò su cui, però, non possiamo discordare, sono i suoi aspetti strutturali, il suo valore storico o la raffinatezza tecnica con cui è realizzata; per questo dovremmo richiamare questi fattori “inopinabili” quando facciamo critica, così come dovremmo delegittimare l’appello a fattori soggettivi al suo interno. Dopotutto una cosa “può non piacermi” seppur “io riconosca il suo valore”. Sinceramente, non solo credo che questa opinione sia sbagliata, ma credo che nasca da un modo di concepire la nostra soggettività che è eccessivamente ingenuo. Le emozioni e le aspettative, infatti, non sono cose che esistono “sottovuoto”, lontane dal mondo: come la psicologia ci insegna da decenni, queste dipendono sia da aspetti ambientali che da fattori squisitamente corporei. Il fatto che certe condizioni ambientali interagiscano con noi, provocandoci certe emozioni invece che altre, è qualcosa che è tanto oggettivo quanto la lista dei materiali usati per comporre una statua. Da questo punto di vista, quando un’opera ci lascia indifferenti e vediamo, invece, che provoca forti emozioni nella persona accanto a noi, ciò che dovremmo fare non è tanto ignorare gli aspetti emotivi poiché “eccessivamente variabili”. Casomai, dovremmo chiederci perché c’è questa differenza di reazione tra me e lui. Da quali aspetti personali dipenda e – nel caso fosse un’operazione sensata – se sia possibile metterci nella stessa condizione psicologica, in modo da provare sensazioni analoghe. Da questa prospettiva, fare critica non vuol dire solo avere una conoscenza approfondita su un’opera, ma anche essere capace di descrivere efficacemente il tipo di effetto che ci fa l’interazione con questa, sapendo districarne le ragioni sottostante. Anche tra i critici d’arte esiste una profonda disomogeneità, legata ai loro studi, alla loro vita emotiva e alla loro storia personale; considerare questa disomogeneità come un difetto e non come un punto di forza mi sembra decisamente poco fruttuoso. Ciò che farò nell’articolo sarà, appunto, provare a capire perché la raccolta di panpanya abbia un certo effetto psicologico su di me. Ciò che spero non è tanto di “far vedere” a chi legge le cose dal mio punto di vista, ma portarlo a riflettere su un preciso metodo di fare analisi. A mio avviso, se c’è un ruolo sociale rilevante che i critici possono avere rispetto a chi decide di ascoltarli, questo non riguarda l’educazione al “buon gusto”, come credono in molti. Chi fa critica, casomai, dovrebbe occuparsi di costruire nuove forme di apprezzamento, che mostrino modi inediti di usare quegli “strani strumenti” che sono le opere d’arte, portando il pubblico a riflettere in modo più adeguato e profondo sulle loro abitudini e sulla loro vita interiore.
Panoramica Generale.3 An invitation from a crab è una raccolta composta da 18 storie brevi di lunghezza variabile e da 7 pagine di testo scritto chiamate “note”. Questa strana bipartizione rispecchia un approccio alla costruzione abbastanza profondo, che spero di far emergere bene nel commento. Anche rimamendo in un contesto letterario, una storia può essere realizzata avendo in mente tante funzioni differenti. Un autore può realizzare una storia a scopo formativo, come forma di svago, come espressione personale et cetera. Nel caso di panpanya, i libri della sua produzione hanno la stessa ergonomia di un coltellino svizzero, dal momento che le sue storie possono avere contemporaneamente intenti giocosi, stranianti, umoristici, malinconici o immaginifici. Questa varietà di funzioni non dovrebbe in realtà stupire in una raccolta di storie brevi, anzi, è qualcosa di molto comune. Tutte queste funzioni sembrano però il prodotto in un intento che muove l’intera produzione di panpanya, ovvero l’uso del libro come un oggetto a metà tra il diario e il taccuino di ricerca. L’impressione che provo leggendo i racconti di panpanya è infatti quella che potrei provare leggendo un ispirato scienziato che prova a descrivere i fenomeni naturali che gli si dispiegano di fronte durante la ricerca. Mentre però un naturalista può essere affascinato da certe reazioni chimiche o dal bizzarro comportamento dei bradipi, ciò che panpanya prova a descrivere sono i fenomeni della propria interiorità: credenze, sentimenti, abitudini, fantasticherie, ricordi. L’autrice descrive minuziosamente l’effetto che fanno questi fenomeni interiori usando proprio il fumetto, come uno scienziato che prima cerca di descrivere quei fenomeni che tanto gli interessano e poi prova a costruire ipotesi esplicative, esperimenti concreti o situazioni mentali in cui testare delle leggi nascoste che intuisce di aver afferrato. In questo senso An invitation from a crab è un taccuino, almeno quanto è un diario, proprio perché i fenomeni che panpanya vuole descrivere sono quelli che possono essere catturati solo da una cronaca vissuta in prima persona. In questo senso, l’interiorità per panpanya non è un mondo completamente privato, esplorabile solo chiudendosi ermeticamente nell’indagine dei propri pensieri. Al contrario, panpanya sembra rigettare una simile visione romantica, concentrandosi sul fatto che le emozioni, i sentimenti e le fantasie dipendono in modo preponderante da ciò che succede fuori di noi, in una visione della psicologia che potremmo quasi definire ecologica. Per questo motivo panpanya non si appella troppo a metafore o allegorie che rappresentino ciò che succede dentro di lei ma, invece, usa lo strumento fumettistico come una sorta di banco di prova per costruire situazioni assurde in cui innescare quei meccanismi psicologici che lei stessa ha notato nel suo quotidiano. Si noti, infine, che l’approccio esplorativo dell’autrice non implica un distacco arido e freddo dalla propria interiorità. Bensì è un rapporto giocoso, di esperimento e sorpresa, quel tipo di rapporto splendido che non solo troviamo in altri grandi autori, ma che ci può permettere di vedere il quotidiano e noi stessi come qualcosa di unico, da cui trarre ispirazione. Tra le variegate realtà teoriche che emergeranno nel commento, questa mi sembra essere la più importante, l’approccio che è necessario cogliere per entrare nel mondo di panpanya.
Commento ad An Invitation from a Crab
Il volume/ Da fuori
Se lo consideriamo come prodotto cartotecnico, alcune parti di un volume a fumetti – come la copertina, la sovraccoperta, l’indice, il riassunto o il colophon– vengono il più delle volte considerati come elementi “esterni” al mondo descritto all’interno della storia. Chiaramente ci sono dei casi in cui questo non avviene: si pensi ai bellissimi schemi illustrativi nei volumi di Nausicaa della valle del vento di Miyazaki Hayao, che descrivono approfonditamente gli strumenti usati dai vari personaggi, oppure alle lunghe pagine riassuntive presenti in ogni volume di The Five Star Stories, necessarie per entrare all’interno dei mondi narrativi descritti in ogni singolo volume del capolavoro di Nagano Mamoru. È abbastanza raro, però, che copertine e sovraccoperte svolgano funzioni particolarmente complesse rispetto al contenuto di un’opera.4 Solitamente, le parti “più esterne” di un libro a fumetti hanno la funzione di attirare il lettore e dare un’idea del mood generale dell’opera o degli elementi che troveremo al suo interno, dal momento che il volume dovrà essere venduto in un contesto in cui non è possibile – idealmente – leggerlo integralmente prima dell’acquisto. Se valutiamo una copertina da questa prospettiva commerciale, questa non solo dovrà esprimere i fattori a cui accennavo prima, ma dovrà farlo nel modo più immediato possibile, in modo da catturare subito l’occhio del potenziale lettore. Da questo punto di vista, il guscio esterno di An Invitation from a Crab è, quantomeno, un caso peculiare. Ricordo vividamente le sensazioni che ho avuto le prime volte che mi capitò di vedere – in negozio o nelle pagine online di Star Comics – la raccolta di panpanya e, proprio per i motivi detti sopra, la mia valutazione non fu delle migliori. A primo impatto, trovavo infatti sgraziata e dissonante la scelta grafica fatta per il fronte della sovraccoperta, in cui troviamo diversi tipi di formati rappresentativi. Nello spazio – abbastanza stretto in realtà – del fronte abbiamo stipati uno stemma, un’immagine evanescente in cui si nota un contrasto tra uno sfondo cittadino – disegnato e acquerellato su base fotografica – e un volto disegnato in uno stile molto stilizzato, definito da linee essenziali che occupano uno spazio bianco, in netto contrasto con la complessità dello sfondo. Sotto l’immagine, una colonna di testo scritto e, a fianco, una mappa di una zona del Giappone che non sono mai riuscito a identificare. Parliamo quindi di quattro elementi grafici differenti, tutti ammassati in uno spazio che dovrebbe avere la funzione di catturare al volo l’attenzione del lettore. In più, mentre è facile cogliere – almeno superficialmente – il contenuto di un’immagine, la questione è molto più complessa per quanto riguarda una mappa o un testo scritto. Un’immagine può colpirti in pochi attimi anche vagando distrattamente per un negozio; un testo scritto, invece, può richiedere qualche minuto, portando a soffermarsi sul libro, per analizzarlo nel dettaglio. Azione che, spesso, un potenziale acquirente potrebbe non essere disposto a fare.5 Oltre a questa scelta comunicativa – che al tempo mi sembrava abbastanza inelegante e confusionaria – trovavo anche una dissonanza più superficiale proprio nella piccola immagine frontale, nel contrasto tra il realismo dello sfondo e l’eccessiva semplificazione del volto della protagonista. In realtà la cosa non avrebbe dovuto impressionarmi particolarmente, dal momento che molti autori che apprezzo – come Mizuki Shigeru e, in certe fasi, Tezuka Osamu – tendono a contrapporre ambienti realistici a figure umane disegnate in modo deformed; in questi autori, però, spesso questo contrasto tra elementi è mediato da una qualche uniformità stilistica – magari nello spessore del tratto o nella gestione dello spazio – cosa che non riuscivo a trovare nell’alternanza tra il volto di panpanya e il paesaggio cittadino. A posteriori, è chiaro che questo senso di dissonanza che provavo tradiva un approccio erroneo alla struttura comunicativa del libro. In quelle occasioni avevo creduto erroneamente che l’oggetto dovesse essere valutato a partire da una serie di valori puramente legati alla piacevolezza visiva come, per esempio, il fatto che il disegno in copertina fosse memorabile o che, con un solo colpo d’occhio, questa esibisse delle peculiarità grafiche che potevano catturarmi e farmi interessare alla lettura. In qualche modo il mio approccio era legato a una disposizione psicologica che potrei definire come contemplativa:6 le cose si guardano e si apprezzano osservandole, in uno stato di attesa, sperando che la loro osservazione ci colpisca in qualche modo. Il guscio di An Invitation from a Crab, però, diventa più facilmente apprezzabile nel momento in cui il volume inizia a essere effettivamente usato come strumento. Con questo non mi riferisco solo al fatto che la copertina richieda un approccio “più complesso” dal momento che richiede anche di leggere una parte testuale, ma intendo dire che le parti esterne della raccolta iniziano a mostrare fattori di interessi nel momento in cui le usiamo come “basi” per un lavoro immaginativo – proprio come potrebbe succedere usando una mappa o un opuscolo di viaggio. Provo a spiegare meglio quello che intendo. Iniziando a leggere la colonna di testo, ci troviamo di fronte a un racconto realistico in cui la narratrice riporta, con dovizia di particolari, un episodio bizzarro che la vede come protagonista. Passeggiando per la città, panpanya racconta di essersi imbattuta in un granchio che scorrazzava per strada; da lì inizia un inseguimento che termina di fronte a una pescheria. Ci sono due punti che secondo me andrebbero approfonditi, in relazione a questa storia. Come dicevo, i fattori di apprezzamento di questa sovraccoperta non sono strettamente visivi quanto cognitivi; detto altrimenti, se prendiamo il racconto della caccia al granchio come elemento principale della sovraccoperta e lo mettiamo in relazione con gli altri (la mappa laterale e l’immagine sovrastante), notiamo come questi elementi possano servire a rendere più vivida l’immaginazione del lettore durante la lettura del testo. Uno può infatti usare l’immagine per visualizzare meglio la scena, così come può giocare con la mappa, rintracciando il percorso fatto dalla narratrice nel suo inseguimento. Non solo: se guardiamo l’aletta laterale oppure osserviamo la copertina del volume, tolta la sovraccoperta, troviamo altri elementi che ci possono aiutare a giocare ancora di più con il racconto. Nell’aletta della sovraccoperta, infatti, troviamo la foto di un granchio – con tanto di descrizione naturalistica sottostante – mentre la copertina rappresenta le basole di un percorso pedonale, che potremmo vedere come quello percorso dalla protagonista. Vediamo quindi come, in realtà, i vari elementi grafici “di superficie” del volume possano avere una funzione che non è direttamente grafica, ma servano a costruire un ambiente immaginativo per entrare nell’atmosfera generale della raccolta. Come dicevo, questo approccio non va a favorire tanto il lato percettivo “diretto” quanto quello che potremmo definire cognitivo (qui inteso come “non strettamente legato all’esperienza percettiva”). Poco prima ho parlato di “mappe” proprio perché la sensazione che a me sembra di provare, in questi casi, è simile a quella che provo quando devo organizzare un viaggio o un percorso di trekking e mi ritrovo a leggere, in anticipo, delle guide per comprendere i luoghi da visitare e i percorsi da prendere senza rischiare di perdermi. Anche in quei casi c’è una componente cognitiva alla base di questi oggetti rappresentazionali, che passa dalla combinazione di testo scritto, cartine, immagini e altri elementi che possono permettermi di orientarmi in modo efficace. Passando alla seconda osservazione, è molto interessante notare come, già in questa breve storia iniziale, sia possibile trovare una serie di elementi tematici che saranno presenti in tutta la raccolta. Troviamo infatti:
- Struttura “a diario”: le storie vengono quasi sempre innescate a partire da eventi bizzarri o fatti peculiari che irrompono nel quotidiano della protagonista. Questo rapporto tra quotidiano e non-quotidiano e la sovrapposizione fittizia tra l’autrice e la protagonista dei racconti permettono di concepire le storie come parti di una sorta di diario o di un taccuino. Questa impressione è anche rafforzata dalle riflessioni presenti nelle note, che sono spesso datate e servono a intervallare le varie storie.
- Cura nelle descrizioni di artefatti, fenomeni naturali e pratiche sociali: qui ci stiamo riferendo sia a oggetti e fenomeni reali – che possono ritrovarsi anche nel nostro mondo – che finzionali, inventati di sana pianta da panpanya. In entrambi i casi, la visione di panpanya su simili questioni è quella di una naturalista che studia i fenomeni che si trova di fronte, provando a ricavarne conoscenze e leggi generali.
- Interesse per il contesto urbano: panpanya predilige i contesti urbani per ambientare le sue storie. In ogni caso, anche nei casi in cui la narrazione avvenga fuori dalla città, la presenza di elementi antropici è costantemente presente. Detto questo, è comunque bizzarro notare come, nonostante le produzioni umane siano praticamente onnipresenti nelle storie di panpanya, l’autrice tenda a rappresentare spesso oggetti che non svolgono più la loro funzione primaria oppure il cui uso è praticamente incomprensibile. Si passa infatti da quartieri disabitati e oggetti inutilizzati fino ad architetture e prodotti artefattuali talmente bizzarri7 che – come succede spesso nella produzione di Sakabashira Imiri – è quasi possibile percepire questi stessi elementi come naturali, generati spontaneamente.
- Umorismo basato sul paradosso: nel racconto che è presente in sovraccoperta, per esempio, l’humour deriva da una serie di fattori quali l’idea che un granchio sia un’animale che fa parte della fauna cittadina e il contrasto tra la minuziosa attenzione naturalistica di panpanya (tale da segnarsi anche il percorso fatto inseguendo il granchio) e l’ingenuità manifestata dal non aver notato il cartellino del prezzo attaccato al granchietto.
Riflettendoci, la copertina del volume è effettivamente un’ottima presentazione del volume, dal momento che al suo interno sono presenti una serie di elementi che un lettore può aspettarsi e ritrovare nella raccolta. La cosa interessante è che, in questo caso, questi aspetti non sono tanto veicolati dagli aspetti visivi del volume, ma richiedono un uso multifattoriale degli elementi che compongono la parte esterna dell’opera. Se qualcuno si fosse chiesto perché fosse così importante dedicare tutto questo spazio a un elemento “esterno” all’opera, ecco qua la spiegazione. An Invitation from a Crab richiede al lettore, sin dall’inizio, un forte lavoro immaginativo, in modo da sintonizzarsi con i temi e con l’approccio psicologico che l’autrice avrà all’interno del volume. Da questa prospettiva, potremmo anche dare una lettura divertente al titolo stesso della raccolta, ripreso dalla storia che apre il volume. Quella che è descritta nella sovraccoperta e nella prima storia non è una “invitation” quanto una vera e propria caccia alla preda: la protagonista insegue il povero granchio perché vuole cucinarlo! Potremmo però intendere from a crab in senso metonimico: incontrare un granchio in una città è una cosa alquanto strana, sicuramente un evento inaspettato; potremmo quindi intendere invitation from a crab come un “invito” che ci viene fatto quando ci troviamo di fronte a eventi unici o bizzarri e abbiamo la sensazione che questi vogliano chiamarci a giocare con loro. La scelta di partecipare attivamente spetta poi a noi.
Prima storia: Un invito da un granchio.
L’atmosfera immaginativa che possiamo creare esplorando l’esterno del volume trova uno sfogo più concreto con la prima storia della raccolta. Un invito da un granchio, infatti, altro non è se non la versione a fumetti del racconto sulla caccia al granchio che leggiamo sulla sovraccoperta. Stessa storia, due media differenti; questo mi porta immediatamente a fare una riflessione su una differenza espressiva fondamentale tra le due versioni. Nella versione presente sulla sovraccoperta il testo scritto è supportato da una mappa che ci permette di immaginarci in modo più nitido l’inseguimento, spingendoci a fantasticare sul tipo di traiettoria fatto dalla protagonista. In qualche modo la possibilità di mappare il percorso fatto dalla protagonista è parte del gioco che possiamo costruire con gli ingredienti che ci vengono forniti nella parte esterna del volume. Notiamo invece come questo aspetto legato all’orientamento e alla mappabilità dell’ambiente cada facilmente in secondo piano all’interno della controparte fumettistica: le scalinate e le strade percorse da panpanya sono infatti decisamente generiche e difficilmente potrebbero essere usate per immaginare un percorso uniforme. In questo non aiuta nemmeno la natura frammentaria delle sequenze e del disegno che rendono difficile fare una ricostruzione spaziale accurata dell’inseguimento. Ciò che a me pare enfatizzato, casomai, è la verticalità delle architetture e dello sviluppo urbano, oppure il senso di frenesia che l’autrice esprime con continui cambi di tratto durante l’inseguimento. In questo senso, credo che il fumetto esprima molto bene un senso di dispersione all’interno degli ambienti cittadini che è praticamente assente nella prima versione della storia. Continuando a parlare della versione a fumetto della storia, comunque, una cosa che mi colpisce particolarmente del disegno di panpanya8 è il contrasto tra due diverse modalità di disegno, legate a ciò che l’autrice vuole rappresentare. La prima di queste modalità può essere ritrovata in una rappresentazione molto dettagliata degli ambienti, dei palazzi e degli oggetti; questa scelta dà spazio a viste suggestive ed esprime un solido senso di concretezza nella rappresentazione degli ambienti.9 Questa concretezza, però, sembra venir meno nel caso in cui a essere rappresentati siano la protagonista o gli altri comprimari. In tutti questi casi, la mia impressione è che la loro rappresentazione sia più evanescente, in un modo quasi contraddittorio. La materialità del corpo vivente della protagonista e degli altri è, infatti, spesso definito da un bianco intenso che viene delimitato da pochi tratti, molto sintetici ed espressivi. Sono proprio queste poche linee a dare volume ai personaggi dandogli un minimo di materialità, in modo da non farci percepire i loro corpi come quelli di fantasmi che fluttuano tra gli ambienti cittadini. Cosa questo contrasto tra la materialità degli ambienti e l’immaterialità dei personaggi voglia esprimere è qualcosa su cui riflettere in seguito.10
Andando oltre questa riflessione sul disegno, è interessante notare come, anche in una storia così breve, sia rintracciabile una batteria di temi che sarà trasversale a buona parte della raccolta. Durante l’inseguimento, infatti,la protagonista dichiara:11
Sono nei pressi di casa mia, eppure mi sembra di vedere tutto con occhi nuovi, forse perché sto inseguendo un granchio.
Affermazione bizzarra. Qui panpanya sta riflettendo sul fatto che, in qualche modo, ci sia un legame causale tra le sue capacità percettive e il fatto di star inseguendo un granchio, come se l’azione che sta compiendo cambiasse il modo in cui vede le cose intorno a sé. L’autrice sta, quindi, facendo una precisa affermazione sulla natura della sua esperienza personale: il modo in cui lei può vedere12 una stessa cosa può variare sensibilmente a seconda di cosa sta facendo. Ciò che si sta affermando, quindi è che vi sia un legame tra cosa cerchiamo dall’ambiente intorno a noi e il modo in cui noi lo esperiamo. Le stesse strade che la protagonista percorre ogni giorno per andare a scuola sembrano diverse nel momento in cui i suoi obiettivi concreti sono differenti dal solito. Normalmente lei percorre la strada con l’obiettivo di andare a scuola, qua però quegli stessi spazi devono essere percorsi per inseguire un granchio! L’idea che i nostri obiettivi pratici abbiano un qualche effetto sul modo in cui percepiamo le cose è un’idea ormai affermata in diversi ambiti di ricerca;13 ciò che è interessante notare, però, è come panpanya ricavi questo tipo di teorie senza richiamare esplicitamente delle teorie scientifiche. La maggior parte delle idee che l’autrice presenta nel corso della raccolta, parlando della natura della sua esperienza personale, sono ricavate infatti da una sottile osservazione dei suoi processi interiori, di ciò che le succede direttamente interagendo con il mondo. Mi permetto di sottolineare questi punti perché, nel corso della raccolta, il rapporto tra esperienza e obiettivi pratici tornerà a più riprese, con diverse variazioni. A volte, per esempio, panpanya potrebbe essere interessata a capire come la nostra percezione cambia in relazione ai ricordi, altre volte alle abitudini, altre ancora alle aspettative e così via. Un altro tema trasversale che emerge da questo racconto, direttamente legato alla questione della percezione, è quello della quotidianità. Se dovessi fare un’osservazione evocativa, ma un po’ esagerata, direi che l’interesse per il quotidiano è il nucleo essenziale di tutta la produzione di panpanya. Qui con quotidiano non mi riferisco a qualcosa di carattere sociale o lavorativo, ma sto parlando di una sua caratterizzazione puramente psicologica. Tutti noi sviluppiamo delle routine e delle abitudini che rendono, per periodi di tempo più o meno lunghi, più stabili le nostre esperienze. Magari facciamo sempre la stessa strada per andare a lavoro, le nostre giornate si suddividono in attività molto simili tra loro, impostiamo una dieta che richiede una regolarità nei pasti, qualche sera della settimana possiamo dedicarla a uscire o a guardare un film con gli amici, … questi sono solo alcuni esempi di pratiche che vanno a costituire il quotidiano di una persona. Il quotidiano, in altre parole, è quell’insieme di abitudini, aspettative, rituali, sensazioni e comportamenti ripetuti che sono associati allo stile di vita di un individuo. Da questo punto di vista, ognuno di noi ha un quotidiano differente. È anche vero, però, che possono esistere somiglianze tra le quotidianità di individui diversi; spesso queste regolarità sono legate a fattori caratteriali, materiali, culturali. Ciò che sembra interessare a panpanya è proprio questo concetto di quotidianità e il modo in cui l’inaspettato può entrare nelle nostre abitudini; Un invito da un granchio è un racconto esemplificativo, da questo punto di vista. La storia inizia con un evento inatteso, che non fa parte della quotidianità della protagonista. Questo la porta a vivere una breve avventura in cui il percorso che vede ogni giorno acquista un senso differente, totalmente nuovo. L’episodio della caccia al granchio, però, è solo uno dei possibili approcci al tema; in realtà il rapporto tra quotidiano e non-quotidiano ha una struttura molto più variegata e complessa in panpanya.
Prima nota: Atmosfera.
È sufficiente concludere la prima storia per vedere come il tema del quotidiano emerga con un’accezione abbastanza diversa a pagina 9, con la prima nota. Ai miei occhi lo scritto ha il fascino di una riflessione notturna, in cui qualcuno, alla fine di una lunga giornata, inizia a pensare a qualcosa che gli è rimasto particolarmente impresso. Quando riconosciamo un evento come strano o peculiare, può succedere che in qualche modo questo sia già implicitamente “carico di teoria” per noi; magari ci colpisce perché abbiamo qualcosa da dire a riguardo e non viceversa. Dopodiché, in un momento di riposo, abbiamo il tempo e la disposizione d’animo adatta per lasciare che questo “carico teorico” vada a dispiegarsi, mentre ci perdiamo nella riflessione; non è forse nemmeno importante che si arrivi a un vero e proprio risultato concettuale, ma è sufficiente che il pensiero vada a orientarsi secondo ciò che ci ha colpito. In questo caso, ciò che la protagonista coglie è qualcosa che lei chiama atmosfera, che si manifesta notando l’austerità nella voce del presentatore di un vecchio notiziario. A partire da questo anomalo tessuto di sensazioni uditive, in particolare a partire dal modo chiaro e nitido di parlare del presentatore, l’autrice trova una rottura con la propria esperienza quotidiana, con il modo in cui il parlato televisivo fa parte della sua attuale esperienza abitudinaria. Proprio come nella storia precedente, ciò che si nota è qualcosa di anomalo, che non fa parte del modo in cui la nostra esperienza è standardizzata: nel caso della caccia al granchio questo generava esaltazione e frenesia, ad andare incontro a sentieri inesplorati. Qui invece, la novità ha un carattere calmo e riflessivo, innescando una riflessione generale. A partire da questa “anomalia atmosferica”, l’autrice inizia a immaginare le possibili ragioni che portavano i conduttori a preferire un modo così impostato di parlare. Un primo risultato – ammetto, abbastanza inaspettato anche per me a una prima lettura – che l’autrice indivua può essere tranquillamente inscritto nelle linee teoriche tracciate dal Benjamin dell’Opera d’arte sul rapporto tra tecnologia e percezione. Di fatto, l’autrice fornisce un chiarissimo esempio sul modo in cui gli strumenti tecnologici di un certo periodo storico abbiano un effetto forte sul modo in cui la percezione degli individui va a strutturarsi. panpanya ipotizza infatti che la scelta di articolare i discorsi in un modo ‘sì regimentato dipendesse dalle caratteristiche tecniche della strumentazione microfonica del tempo, che aveva bisogno di un certo tipo di stimolazioni acustiche perché funzionasse in modo efficace. A partire da un bisogno legato alla strumentazione tecnologica, certi tipi di strutture percettive si sviluppavano, quindi, e diventavano un elemento comune, parte della quotidianità di chiunque seguisse la televisione al tempo. Con il cambiamento degli strumenti tecnologici, sono anche cambiate le performance vocali richieste ai presentatori e, di conseguenza, anche l’atmosfera sonora associata. Seppur l’ipotesi non venga confermata, la riflessione è sicuramente suggestiva e denota un’attenzione molto profonda sul ruolo che gli strumenti tecnici hanno sulla nostra esperienza. A fianco di questa bella riflessione, però, vedo anche una declinazione del tema del quotidiano che si distacca dal modo in cui questo era stato trattato in Un invito da un granchio. In entrambi i casi troviamo la stessa dinamica, in cui un’anomalia dà vita a qualcos’altro, dicevo già prima. Ciò che però è davvero interessante notare è che, in questo caso, a innescare un senso di dissonanza dal nostro quotidiano è qualcosa che, in tempi più lontani, era stato parte del quotidiano di qualcun altro. Non a caso, panpanya sembra quasi proporre un criterio di classificazione storica delle atmosfere, connesso alle risorse tecnologiche del periodo. Ciò che mi ha colpito, e che meriterebbe un approfondimento, è quindi la sensibilità che panpanya dimostra nel riconoscere una cosa che, per quanto scontata, non riusciamo facilmente a tenere a mente: il fatto che quella che ho chiamato quotidianità abbia una vita vera e propria e che, proseguendo lugubremente con questa metafora biologica, arrivata a un certo punto anche questa muoia. Quando questo succede, ciò che prima ci sembra evidente e ovvio diventa estraneo e meno immediato da comprendere; in qualche modo si distacca dalla nostra vita. In modo speculare a ciò che avviene nel caso della strada per andare a scuola nel racconto precedente, finché qualcosa fa parte della nostra quotidianità, per noi appare come familiare. È solo distanziandosi dal contesto quotidiano in cui viviamo certe cose, però, che notiamo alcune caratteristiche che non avremmo potuto cogliere altrimenti.
Note
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L’ultimo volume pubblicato è Fish Society, uscito nell’agosto del 2023. ↩︎
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Anzi, a volte può anche succedere che non ci sia niente da scrivere durante un viaggio. ↩︎
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D’ora in avanti mi permetto di fare due operazioni indebite: la prima sarà riferirmi a panpanya usando il genere femminile; parlo di operazione indebita dal momento che il genere di panpanya è tutt’ora sconosciuto. Il motivo per cui decido comunque di usare il femminile è – ahimé – per la mia mancanza di abitudine nell’uso del neutro nei contesti più formali in cui devo usare la lingua scritta; per questo motivo ho deciso di accodarmi alla traduzione italiana, che si riferisce alla protagonista delle storie con il femminile. La seconda operazione indebita sarà proprio quella, in certi casi, di usare il nome panpanya sia per riferirmi all’autrice che alla protagonista delle storie; per fare ciò mi sento in parte legittimato dalla natura molto personale dell’opera, che permette un’identificazione tra autrice e personaggio fittizio. ↩︎
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Degli esempi richiedono, solitamente, di andare verso forme più sperimentali di fumetto, come può succedere per il Rusty Brown di Chris Ware. ↩︎
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Io per primo. ↩︎
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L’espressione è volutamente pacchiana, perché spero riesca a dare l’idea di qualcosa che richiede un tipo di “immobilità” e passività esperenziale. ↩︎
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Tanto che farne reverse engineering sembra praticamente impossibile. ↩︎
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Prendo questa storia come riferimento, ma credo sia una riflessione estendibile a buona parte della sua produzione. ↩︎
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Seppur spesso, in virtù di un uso decisamente bizzarro dei volumi, gli oggetti ambientali sembrano quasi capaci di deformare, curvare lo spazio intorno ai soggetti viventi. ↩︎
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La mia idea è che questa differenza nelle modalità di rappresentazione sia legata a una distinzione che panpanya implicitamente fa tra agenti e ambienti. Ciò che ho più volte notato durante la lettura, infatti, è che la seconda modalità di rappresentazione è riservata a quel tipo di cose che possono agire attivamente con l’ambiente: esseri umani, pesci, salamandre et cetera. Questa idea entra in contrasto con un fatto abbastanza fondamentale, presente già in questo racconto: se quella che ho chiamato seconda modalità viene usata per gli agenti biologici, perché il granchio della storia è, invece, rappresentato con la prima modalità (ovvero in modo dettagliato, tendente al realistico)? Si osservi che, in realtà il granchio viene rappresentato in entrambi i modi durante il racconto: il secondo stile viene adottato nel momento in cui la protagonista lo prende con sé, entrandoci in contatto. La mia ipotesi (che ritornerà anche nel commento di uno dei racconti successivi) è che la seconda modalità valga per esseri viventi che panpanya non percepisce come oggetti: l’alternanza tra primo e secondo stile dipenderebbe, forse, dal fatto di considerare un po’ crudelmente il fuggitivo come qualcosa da mangiare (come un oggetto quindi) o come un essere vivente con cui interagire (nel momento in cui viene sollevato). ↩︎
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Pag. 6, vignette 3,4,5. ↩︎
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Io direi che, in questo caso, “vedere” può essere inteso in modo più generale come “avere esperienza”. ↩︎
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Sicuramente dei testi sull’argomento possono essere trovati nella letteratura scientifica nata dalla produzione pionieristica di James Gibson. Altrimenti, se qualcuno non fosse troppo interessato ad approfondire le questioni dal punto di vista delle scienze psicologiche, mi viene a mente che questo concetto è stato presentato anche in un breve testo: Ambienti Umani e Ambienti Animali scritto dal biologo Jakob von Uëxkull, ultimamente riscoperto anche nell’ambito dell’ecocritica letteraria. ↩︎